Quando portare una figlia dalla ginecologa? Quando portare un figlio dall’andrologo?
Per rispondere a queste domande abbiamo voluto sentire la Dott.ssa Mariaserena Taffo, psicologa e sessuologa.
Tutti gli specialisti della salute sono concordi nell’affermare che appena inizia l’adolescenza, i ragazzi dovrebbero recarsi dall’andrologo, così come le ragazze dal ginecologo. Le statistiche, tuttavia, sostengono che solo 2 ragazzi su 10 fanno una visita dall’andrologo; l’allarme è stato lanciato dalla SIA, Società Italiana di Andrologia. Le donne annualmente sono abituate ad andare dal ginecologo sin dall’adolescenza a scopo educativo e preventivo, mentre lo stesso non vale per gli uomini, i quali ricorrono all’aiuto dell’andrologo solo nel momento del bisogno, ovvero in presenza di una problematica o sintomo. Terminato il rapporto col pediatra, è come se l’uomo vivesse un vuoto relativamente alle figure mediche a cui far riferimento e questo è in effetti un problema, considerando che molte patologie maschili, come per esempio il tumore al testicolo, insorgono nell’adolescenza e nella giovane età, pertanto è fondamentale fare prevenzione.
Nella pratica clinica, mi capita frequentemente di chiedere ai miei pazienti uomini di diverse fasce d’età se abbiano mai eseguito un controllo dall’andrologo e la risposta è sempre più o meno la stessa, ovvero che “è inutile andare in assenza di un problema e che ci si deve controllare verso i 50 anni”. Molto spesso infatti si pensa, erroneamente, che il primo controllo uro-andrologico debba avvenire in concomitanza con il potenziale insorgere delle patologie della prostata.
Perché dunque l’uomo è così restio a questo tipo di controllo? Quali sono le dinamiche psicologiche che si nascondono dietro un simile atteggiamento? Come al solito gli stereotipi legati al genere non aiutano e fanno al contrario molti danni. La cultura della mascolinità porta gli uomini a considerare i disturbi della salute come un segno di debolezza e come qualcosa di cui vergognarsi e da non poter condividere, in poche parole non ci si può considerare fragili e vulnerabili, come se questa fosse una prerogativa unicamente femminile.
A molti uomini quindi risulta difficile parlare di come stanno, del resto da sempre sentiamo dire frasi del tipo “i veri uomini non piangono mai” oppure “piangi come una femminuccia”; si può facilmente dedurre quanto questo stereotipo culturale e sociale venga introiettato sin da piccoli e renda all’uomo difficile, se non impossibile, una richiesta di aiuto, anche in ambito medico.
La sociologa, etnografa e scrittrice Liberty Walther Barnes nel suo libro Conceiving Masculinity ha riportato la tesi secondo cui le credenze culturali influenzano e modellano la medicina americana. Secondo la studiosa, gli uomini vanno dal medico meno di frequente e non adottano le stesse misure di prevenzione delle donne riguardo alla salute, queste ultime sarebbero socialmente condizionate ad andare dal dottore con regolarità sin da piccole.
Ci troviamo insomma davanti agli effetti di quel fenomeno che da qualche anno a questa parte ha preso il nome di mascolinità tossica, definita in un articolo del New York Times come un insieme di comportamenti e credenze che comprendono il sopprimere le emozioni, mascherare il disagio o la tristezza, il mantenere un’apparenza di stoicismo e la violenza come indicatore di potere.
La mascolinità tossica in definitiva vieta agli uomini di essere vulnerabili, problematici, umani. Quale può essere allora la risposta per abbattere questa barriera socio-culturale che costituisce un così grosso limite per l’uomo e per la sua salute? La soluzione sta necessariamente nel comprendere il potere del dialogo e della condivisione, quali passaggi fondamentali attraverso cui l’uomo possa rivendicare la possibilità, la libertà e il diritto di essere fragile, tanto quanto la donna.